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La scure di Erdogan sugli avvocati turchi

15.11.2022 22:59
Si chiude il processo farsa ai legali del Chd, tra cui Barkim, sorella di Ebru Timktik. L'allarme di Cnf e Oiad: "La democrazia è sotto assedio"
 

Si è concluso a Istanbul il processo-farsa contro l’associazione degli avvocati progressisti turchi (Chd), un iter lunghissimo durato nove anni (la prima udienza risale addirittura al 2013). Naturalmente si tratta di una sentenza già scritta, una sentenza tutta politica, ma anche di un avvertimento da parte del regime del “sultano” Erdogan a tutti i suoi oppositori e a chi ha l’ardire di difenderli in nome del diritto alla difesa e al giusto processo.

In Turchia la giustizia e la politica sono un unico mostro intrecciato, e quasi nessun magistrato prende decisioni che possano irritare o scontentare il governo. Se finisci nel mirino delle autorità, neanche un miracolo può riuscire a salvarti. Sono così ventidue le condanne emesse oggi pomeriggio dalla 18esima corte penale che si è riunita nell’aula bunker del carcere di Sliviri, tutte pesantissime e con l’accusa di “appartenenza a organizzazione terroristica”, “propaganda” e “crimini di resistenza”. Rimarranno in prigione, nella famigerata struttura penitenziaria, piena zeppa di prigionieri politici e di figure invise a Erdogan e al suo clan, dissidenti, giornalisti, professori universitari e, per l’appunto, gli odiati avvocati difensori.

Tra le figure più note finite alla sbarra c’è quella di Selcuk Kozagacli, (presidente del Chd) che è stato condannato a un totale di 13 anni, Barkin Timtik, sorella di Ebru Timtik l’avvocata morta in prigione nel 2020 dopo oltre 200 giorni di sciopero della fame, ha ricevuto un totale di 20 anni e sei mesi, Oya Aslan 16 anni e sei mesi. La cosa sconvolgente è che l’intero processo si fonda su prove inesistenti, con il supporto di testimoni di cui nessuno conosce l’identità e mai portati in udienza, sono una quarantina e un terzo di loro è stato ascoltato unicamente dall’ufficio del pubblico ministero. Gli avvocati denunciano decine di testimonianze estorte con la forza o con la tortura. Inoltre i documenti incriminanti sono stati prodotti direttamente dalla polizia turca e non avrebbero alcuna rilevanza in un sistema giudiziario democratico costruito sullo stato di diritto.

 

L’allarme di Cnf e Oiad: “La democrazia è sotto assedio”

Il Consiglio nazionale forense (Cnf) e l’Osservatorio Internazionale degli avvocati in pericolo (OIAD) di cui è vice – presidente il consigliere Francesco Caia, coordinatore della commissione diritti umani del CNF, hanno monitorato, attraverso i propri osservatori (gli avvocati Antonio Fraticelli, componente dell’Ordine degli avvocati di Bologna, Massimo Chioda del Foro di Monza, Fausto Pelizzari, Presidente del coa di Brescia e Adriana Vignoni, componente dell’Ordine degli avvocati di Brescia), unitamente ad una delegazione internazionale composta da più di 60 avvocati, le udienze finali del processo. E denunciano la completa violazione dei diritti della difesa e l’assimilazione odiosa compiuta dal regime tra avvocati e clienti. Tra difensori e imputati. «Queste sentenze colpiscono l’indipendenza della giustizia e le regole del diritto, è la stessa democrazia a essere sotto assedio», si legge nel comunicato diffuso dagli osservatori dell’Oiad.

Molti dei condannati avevano infatti difeso degli oppositori politici o semplicemente persone accusate di ordire complotti eversivi, o di aver partecipato al tentato golpe del luglio 2016 oppure militanti del partito dei lavoratori curdo (Pkk) che Ankara considera una formazione terrorista. O ancora dei ragazzi che si scontrarono ruvidamente con la polizia nelle rivolte di Gezi park del 2013. Oppure i minatori di Soma, l’impianto di carbone esploso nel 2014 causando quasi trecento vittime per la negligenza del governo e del proprietario Alp Gurkan, grande amico di Erdogan, che venne assolto con formula piena.

 

 

Avvocati turchi alla sbarra: quanto rischia Barkim, sorella di Ebru Timtik

 
 
Dall'inviato in Turchia, Avv. Ezio Menzione. Sta per concludersi il processo farsa contro il quale protestò Ebru, attivista dei diritti umani che morì nel carcere di Silviri dopo 238 giorni di sciopero della fame
 

Cielo plumbeo a Istanbul in questo novembre. Più di due ore di traffico per lasciare la città e raggiungere Silivri, vera e propria cittadella penitenziaria per 25mila detenuti (ma la si sta ampliando per raddoppiare). Comincia quella che dovrebbe essere l’ultima udienza del processo contro i colleghi avvocati turchi dell’associazione CHD, accusati di appartenere ad un’associazione terroristica. Accusa infondata perché i colleghi hanno avuto il solo torto di fare con coscienza il loro lavoro, difendendo gli ultimi a tutto campo: anche i terroristi curdi, è vero, ma senza identificarsi affatto con loro.

Un processo che, con la sua prima tranche, era iniziato nel 2013 e costò loro 9 mesi di detenzione e poi fu interrotto. Ma vi si sovrappose poi una seconda accusa, del tutto uguale alla prima con le stesse sedicenti prove, che li sta tenendo in custodia cautelare dal settembre 2017. È un processo di rinvio dopo le condanne a 159 anni in totale per 18 avvocati. È quel processo farsa in cui tutte le regole vennero stravolte e contro il quale si ribellò la collega Ebru Timtik scendendo in sciopero della fame fino alla morte.  È un processo di rinvio per tre imputati, 3 di primo grado per una quarta.

Il punto principale per il quale la Cassazione ha disposto il rinvio è la rideterminazione della pena per Selgiuk Kozaacli  presidente del CHD, che fu erroneamente condannato a “soli” 10 anni e che ora, come organizzatore ne rischia 25 o 30. Viceversa, Barkim Timtik, sorella di Ebru, già condannata a 18 anni per organizzazione deve rispondere della sola partecipazione e quindi, a essere ottimisti, potrebbe stare nel presofferto di 6 anni. Ma i colleghi turchi non sono affatto ottimisti.

Visto dal di fuori,  come da noi osservatori internazionali, che pure lo stiamo seguendo da ormai 9 anni, l’unica logica soluzione a filo di legge sarebbe la piena assoluzione,  dato che le prove sono inesistenti: testi secretati e mai interrogati in udienza, ma che si sa che hanno una storia di droga e ricoveri psichiatrici; oppure documenti di oscura provenienza, su supporto informatico targato polizia turca, che tanti anni fa furono espunti perché inattendibili in un processo per terrorismo internazionale nei Paesi Bassi.

 

Come ha giustamente sottolineato con forza il presidente in un lunghissimo intervento in autodifesa, tutto cominciò quando, alla fine del 2013, il consenso attorno all’allora presidente del consiglio Erdogan si incrinò grandemente per un grosso scandalo di mazzette che lo lambì anche personalmente; per poi ridursi ancora quando, 4 mesi dopo,  la strage di Soma in cui perirono più di 400 minatori, e la miniera faceva capo all’entourage del premier. In quell’occasione i colleghi del CHD ebbero il torto di raccogliere la maggior parte dei mandati delle famiglie delle vittime. Fu in questo clima che fu presa la decisione di fare piazza pulita di questo gruppo di avvocati scomodi.

Oggi, a 9 anni di distanza dalla prima udienza, i colleghi sono ancora in prigione o alla sbarra o tutti e due, ma non hanno certo intenzione di arrendersi. Fra qualche giorno, quasi certamente avremo il verdetto. Quando usciamo dal compound il cielo uniformemente grigio si squarcia e una lama di sole rosso tinge di rosa la grande moschea bianca vicina all’ingresso del carcere: buon segno? Che Allah li aiuti.

 

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